Il melanoma è un tumore maligno originato dai melanociti, le cellule che producono la melanina nella pelle. Pur potendo insorgere raramente anche nelle mucose interne o nell’occhio (melanoma uveale), la maggior parte dei melanomi colpisce la cute. Il melanoma cutaneo rappresenta solo circa il 5% di tutti i tumori della pelle, ma è il più aggressivo: tende infatti a dare metastasi se non viene diagnosticato e trattato nelle fasi iniziali.
In condizioni normali i melanociti cutanei possono formare agglomerati benigni noti come nevi (nei). Un melanoma può svilupparsi su un neo preesistente che subisce trasformazione maligna, oppure può originare de novo su cute apparentemente sana. Clinicamente, un melanoma in fase iniziale può assomigliare a un neo atipico; tuttavia, a differenza dei nei benigni, i melanomi presentano spesso asimmetrie, bordi irregolari, colori disomogenei e tendenza a crescere. La diagnosi precoce è cruciale: un melanoma sottile confinato alla pelle è generalmente guaribile con la chirurgia, mentre nelle fasi avanzate il melanoma può diffondersi ai linfonodi e ad altri organi, diventando potenzialmente letale. Negli ultimi anni, grazie ai progressi nelle terapie (in particolare l’immunoterapia e le terapie a bersaglio molecolare), la prognosi dei melanomi metastatici è migliorata; tuttavia, la prevenzione e la diagnosi tempestiva rimangono fondamentali per ridurre la mortalità.
Negli ultimi decenni l’incidenza del melanoma è in costante aumento in molti Paesi. Il melanoma può insorgere a qualsiasi età adulta, ma è raro nei bambini e più comune negli adulti di mezza età o anziani. Detiene però un triste primato tra i tumori dei giovani: è tra i tumori maligni più frequenti nei giovani adulti (20-40 anni). L’età media alla diagnosi tende a ridursi grazie alla maggiore attenzione alla pelle, ma la probabilità di sviluppare melanoma aumenta con l’età.
Si osservano differenze geografiche nell’incidenza: le popolazioni caucasiche che vivono in aree con forte esposizione solare (es. Australia) presentano i tassi più alti al mondo (fino a decine di casi per 100.000 abitanti ogni anno). In Italia, il melanoma è divenuto uno dei tumori cutanei più diffusi: nel 2023 si stimano circa 12.700 nuovi casi (circa 7.000 negli uomini e 5.700 nelle donne). È il terzo tumore più frequente sotto i 50 anni di età. Nonostante l’aumento dei casi, la mortalità per melanoma è rimasta relativamente stabile, in parte grazie alla diagnosi precoce e alle terapie più efficaci introdotte negli ultimi anni.
I principali fattori di rischio per il melanoma includono sia elementi ambientali che predisposizioni individuali. Il fattore di rischio ambientale più importante è l’esposizione intensa e intermittente ai raggi ultravioletti (UV), soprattutto le scottature solari ripetute in giovane età. Anche l’uso di lettini abbronzanti (lampade UV artificiali) aumenta il rischio di melanoma. Oltre ai raggi UV, diversi fattori individuali possono predisporre allo sviluppo di questo tumore.
Dal punto di vista genetico-molecolare, il melanoma è tipicamente caratterizzato da un alto carico di mutazioni dovuto ai danni causati dai raggi UV sul DNA dei melanociti. Molti melanomi cutanei presentano mutazioni attivanti nella via di segnalazione MAP-kinasi (che controlla la proliferazione cellulare). Ad esempio, circa il 40-50% dei melanomi sporadici ha una mutazione del gene BRAF (più spesso la mutazione V600E); questa alterazione è comune soprattutto nei melanomi a diffusione superficiale nei soggetti giovani. Un altro 15-20% dei melanomi presenta mutazioni di NRAS, mentre una quota minore mostra alterazioni in altri geni (come NF1 o mutazioni di c-KIT che si riscontrano più frequentemente nei melanomi su mucose o acrali). Queste mutazioni somatiche contribuiscono alla crescita incontrollata delle cellule tumorali e alcune di esse sono bersagli di nuove terapie (ad esempio gli inibitori di BRAF e MEK nei melanomi BRAF-mutati, vedi sezione Trattamenti). Oltre alle mutazioni somatiche acquisite, esistono rare mutazioni germinali che aumentano la suscettibilità al melanoma (come le mutazioni ereditarie di CDKN2A/p16 in alcune famiglie con melanoma multiplo).
Il melanoma è inoltre uno dei tumori solidi più immunogenici. Ciò significa che può stimolare una risposta da parte del sistema immunitario, che in alcuni casi riesce persino a limitare temporaneamente la crescita del tumore (sono noti rari casi di regressione spontanea parziale di melanomi, in cui il sistema immunitario distrugge parte della lesione). All’esame istologico, spesso nei melanomi si osservano linfociti infiltranti il tumore; una risposta immunitaria “brisk” (vivace) contro il melanoma è considerata di buon auspicio in termini prognostici. D’altro canto, i melanomi hanno sviluppato meccanismi per sfuggire al controllo immunitario: ad esempio, possono esprimere molecole inibitorie come PD-L1 che “spengono” l’attività dei linfociti T attivandone i checkpoints immunitari. Questa comprensione dell’interazione tra melanoma e sistema immunitario è alla base dell’introduzione di nuove terapie immunoterapiche (inibitori dei checkpoints come anti-PD-1 e anti-CTLA-4) che riescono a riattivare le difese immunitarie contro il tumore (si veda oltre). In sintesi, la risposta immunitaria riveste un ruolo cruciale sia nella sorveglianza contro il melanoma (la frequenza di melanomi è maggiore nei soggetti immunodepressi) sia come bersaglio terapeutico nelle forme avanzate.
:contentReference[oaicite:0]{index=0}Il melanoma a diffusione superficiale (in inglese superficial spreading melanoma) è la forma più comune, costituendo circa il 70% di tutti i melanomi cutanei. Colpisce più frequentemente gli adulti di mezza età; nelle donne compare spesso alle gambe, mentre negli uomini è più frequente sul tronco. Tipicamente si presenta come una macchia cutanea inizialmente piana, irregolare nella forma e nei bordi, con colore variegato: possono coesistere aree di marrone chiaro e scuro, nero, grigio-bluastro o rossastro. La lesione tende ad allargarsi superficialmente (crescita radiale) per mesi o anni. Col tempo possono comparire noduli o rilievi all’interno della placca, indice dell’inizio della crescita verticale in profondità. Istologicamente, questo tipo di melanoma mostra una proliferazione di melanociti atipici che si diffonde nella giunzione dermo-epidermica con invasione graduale del derma sottostante. Molti melanomi a diffusione superficiale insorgono su un nevo pre-esistente. Dal punto di vista molecolare, una percentuale elevata di questi melanomi (soprattutto nei pazienti giovani) presenta la mutazione BRAFV600.
:contentReference[oaicite:1]{index=1}Il melanoma nodulare è il secondo sottotipo più comune (circa 10–15% dei casi) ed è considerato clinicamente il più aggressivo. Si manifesta come un nodulo o papula di nuova insorgenza, a crescita rapida, che invade subito gli strati profondi della cute senza una prolungata fase radiale superficiale. Può svilupparsi su qualsiasi parte del corpo; è spesso di colore scuro (nero o blu-nerastro), ma circa un terzo dei casi è amelanotico (privo di pigmento) e appare quindi di colore rosato o rossastro. Il melanoma nodulare tende ad ulcerarsi e sanguinare più facilmente rispetto agli altri tipi, a causa della sua crescita verticale rapida. Istologicamente, presenta subito un’estesa invasione del derma da parte di cellule neoplastiche. Poiché viene spesso diagnosticato quando ha già uno spessore elevato, il melanoma nodulare ha una prognosi peggiore rispetto ai melanomi a diffusione superficiale di pari estensione.
Il melanoma tipo lentigo maligna (o melanoma su lentigo maligna) rappresenta circa il 5–10% dei melanomi cutanei. Si sviluppa tipicamente in età avanzata, su aree cutanee cronicamente foto-danneggiate (come il volto). Questo melanoma origina da una lesione precancerosa chiamata lentigo maligna di Hutchinson, che è essenzialmente un melanoma in situ: una macchia piana dal contorno irregolare e dal colore variegato marrone-bruno, che può persistere in fase non invasiva anche per molti anni. La lentigo maligna in situ rimane confinata all’epidermide; quando alcune cellule tumorali oltrepassano la membrana basale invadendo il derma, la lesione diventa un melanoma lentigo maligna invasivo. Rispetto agli altri tipi, questo melanoma ha in genere una crescita molto lenta (anni) nella fase in situ, ma una volta divenuto invasivo può metastatizzare come gli altri. Istologicamente è spesso di tipo desmoplastico (con abbondante tessuto fibroso nella lesione) e frequentemente presenta mutazioni del gene c-KIT o altre alterazioni tipiche dei tumori da danno solare cronico (mentre più raramente ha mutazioni BRAF). Clinicamente, il melanoma lentigo maligna si presenta come una chiazza piana a margini irregolari, su cute foto-esposta di anziani, con variazioni di colore dal marrone chiaro al nero. La diagnosi precoce e la chirurgia adeguata portano spesso a esiti positivi, ma queste lesioni possono essere estese e difficili da eradicare completamente, e in alcuni casi si ricorre anche a trattamenti aggiuntivi come la radioterapia locale o l’immunoterapia topica (imiquimod in crema) per le forme in situ non operabili.
:contentReference[oaicite:2]{index=2}Il melanoma acrale lentigginoso è un sottotipo che origina dalle zone cutanee acrali: palmi delle mani, piante dei piedi e letto ungueale (sotto le unghie). È relativamente raro nella popolazione caucasica (circa 5% dei melanomi in persone di pelle chiara), ma rappresenta il tipo di melanoma più frequente nei soggetti con pelle scura (che sviluppano raramente le forme precedenti). Si presenta spesso come una macchia pigmentata scura su palmo o pianta, oppure come una striscia pigmentata sotto l’unghia. Un segno clinico caratteristico del melanoma subungueale è il segno di Hutchinson: l’estensione della pigmentazione dalla lamina ungueale alla pelle del dito adiacente (cuticola e piega ungueale prossimale):contentReference[oaicite:3]{index=3}. I melanomi acrali tendono ad avere un pattern di crescita lento e lentigginoso (simile al lentigo maligna) ma quando invadono il derma possono progredire rapidamente. Spesso vengono diagnosticati tardivamente, poiché possono essere scambiati per lesioni traumatiche (ad esempio un ematoma subungueale) o altre condizioni benigne. Dal punto di vista molecolare, questi melanomi raramente presentano mutazioni BRAF; in una proporzione di casi possono invece avere mutazioni di c-KIT o altre alterazioni. La prognosi dipende dallo spessore della lesione al momento della diagnosi: purtroppo, a causa del ritardo diagnostico, i melanomi acrali sono spesso più spessi e quindi associati a prognosi peggiori rispetto ai melanomi cutanei in sedi più visibili.
Un discorso a parte meritano i melanomi amelanotici: qualunque sottotipo clinico di melanoma (superficiale, nodulare, acrale, etc.) può presentarsi privo di pigmento melaninico visibile. Circa il 5–10% dei melanomi sono di colore rosa, rosso o color carne, senza la tipica pigmentazione marrone-nera. Queste forme amelanotiche possono simulare altre lesioni (come cicatrici, verruche, carcinomi cutanei o granulomi) e vengono quindi riconosciute tardivamente. Di conseguenza, i melanomi amelanotici hanno spesso una maggiore profondità al momento della diagnosi e possono avere una prognosi sfavorevole. Altri sottotipi istologici di melanoma includono il melanoma desmoplastico (spesso originante da lentigo maligna sul volto, caratterizzato dalla presenza di cellule tumorali fusate immerse in uno stroma fibroso; tende a dare metastasi linfonodali meno frequentemente ma può recidivare localmente) e il melanoma spitzoide (melanoma raro che istologicamente somiglia al nevo di Spitz, più frequente in pazienti giovani). Esistono infine melanomi che insorgono in sedi extracutanee: il melanoma mucosale (che può colpire le mucose di bocca, naso, genitali, tratto anorettale) e il melanoma dell’occhio (uveale). Queste forme non cutanee hanno caratteristiche biologiche differenti (ad esempio il melanoma uveale è spesso legato a mutazioni di GNAQ o GNA11 e non a BRAF) e richiedono approcci terapeutici specifici.
La diagnosi di melanoma inizia dall’esame clinico della cute. È fondamentale l’osservazione attenta di eventuali nei sospetti sia da parte del paziente (autoesame periodico della pelle) sia durante la visita dermatologica. Un utile strumento è la dermoscopia (epiluminescenza), che con l’ausilio di una lente illuminata permette di visualizzare dettagli delle lesioni pigmentate non apprezzabili ad occhio nudo, migliorando l’accuratezza diagnostica. In base all’aspetto clinico-dermoscopico, il dermatologo può identificare lesioni cutanee che soddisfano criteri di sospetto per melanoma e porre indicazione all’asportazione.
Per riconoscere i caratteri sospetti di un neo ci si può avvalere della regola “ABCDE”:
La presenza di uno o più di questi criteri non significa automaticamente che il neo sia un melanoma, ma indica la necessità di un controllo medico approfondito. Oltre ai criteri ABCDE, il dermatologo valuta anche il cosiddetto “brutto anatroccolo” (ugly duckling sign): ossia un neo che appare diverso da tutti gli altri nei del paziente. Qualsiasi lesione pigmentata atipica o in cambiamento deve essere sottoposta a biopsia escissionale diagnostica. Il gold standard è l’asportazione chirurgica dell’intera lesione sospetta con un piccolo margine di tessuto sano (1-2 mm) per consentire al patologo di esaminarla al microscopio. L’esame istologico confermerà o meno la diagnosi di melanoma e fornirà informazioni cruciali come lo spessore di Breslow, la presenza di ulcerazione e i margini di resezione.
Dopo una diagnosi istologica di melanoma invasivo, sono necessari accertamenti di stadiazione. In casi selezionati (melanomi di spessore ≥ 0,8 mm, vedi sezione Staging) si esegue la biopsia del linfonodo sentinella: una procedura chirurgica mirata a campionare il primo linfonodo di drenaggio della regione cutanea coinvolta, per verificare se contiene micrometastasi tumorali. Inoltre, per melanomi di stadio clinico II o III, o se vi sono sintomi sospetti, si ricorre a esami di diagnostica per immagini (ecografia loco-regionale, radiografia, TAC, PET, risonanza magnetica) per rilevare eventuali metastasi nei linfonodi o in organi interni.
La diagnosi differenziale del melanoma include numerose altre lesioni cutanee benigne o maligne che possono somigliare a un melanoma iniziale. Tra i nei benigni, i nevi melanocitici comuni e i nevi atipici sono spesso da distinguere dal melanoma (a volte solo mediante biopsia è possibile la differenziazione certa). Anche le lentigo solari (macchie senili da sole) possono simulare un melanoma in situ tipo lentigo maligna. Alcune forme di carcinoma basocellulare pigmentato (tumore cutaneo maligno) presentano aree scure e possono creare confusione clinica. Lesioni benigne come le cheratosi seborroiche (escrescenze verrucose pigmentate), i dermatofibromi (noduli fibrosi spesso iperpigmentati) o gli angiomi/granulomi piogenici (lesioni vascolari rosse) entrano spesso in diagnosi differenziale, soprattutto con i melanomi amelanotici. Nei bambini, un nevo di Spitz (neo benigno di aspetto atipico) può essere indistinguibile dal raro melanoma spitzoide. È compito dell’esame istologico effettuare la diagnosi definitiva in caso di sospetto: per questo qualsiasi dubbio deve portare all’escissione della lesione.
Una volta accertata la diagnosi di melanoma, è fondamentale determinarne lo stadio (estensione della malattia) perché da esso dipendono la prognosi e la strategia terapeutica. Il melanoma in situ (confinato all’epidermide) è definito stadio 0. Il melanoma invasivo viene classificato secondo il sistema TNM dell’AJCC, che considera: la profondità di invasione nel derma (spessore di Breslow, misurato in millimetri) e la presenza di ulcerazione (criteri che definiscono la categoria T); l’eventuale coinvolgimento di linfonodi regionali o la presenza di metastasi satelliti/in-transit vicino alla lesione primaria (categoria N); e l’eventuale presenza di metastasi a distanza in organi (categoria M). In base a questi parametri, i melanomi invasivi sono suddivisi in stadi I-II-III- IV:
Oltre allo stadio in sé, diversi fattori influenzano la prognosi del melanoma. Il parametro prognostico più importante è lo spessore tumorale (Breslow): melanomi sottili (< 1 mm) hanno un’ottima prognosi (sopravvivenza a 5 anni > 95%), mentre melanomi molto spessi (> 4 mm) hanno un rischio elevato di metastasi. L’ulcerazione della lesione è un altro fattore sfavorevole. Il coinvolgimento linfonodale (stadio III) peggiora la prognosi: in generale, più linfonodi sono interessati e maggiore è la massa tumorale in essi (micrometastasi vs macrometastasi), più bassa è la sopravvivenza attesa. Anche la sede delle metastasi influenza l’outcome: ad esempio, le metastasi viscerali al cervello o al fegato comportano prognosi peggiori rispetto a metastasi limitate ai tessuti sottocutanei o ai linfonodi. Tra gli altri fattori prognostici negativi vi sono il sesso maschile (gli uomini hanno in media esiti peggiori delle donne), l’età avanzata, e alcune caratteristiche istologiche (ad es. basso infiltrato linfocitario nel tumore, elevato indice mitotico, presenza di regressione tumorale avanzata, invasione perineurale nelle forme desmoplastiche, etc.).
Storicamente il melanoma metastatico (stadio IV) aveva una prognosi molto severa: fino a 10-15 anni fa la sopravvivenza mediana era di soli 6-9 mesi, e la sopravvivenza a 5 anni inferiore al 10%. Fortunatamente, l’avvento di nuove terapie sistemiche ha migliorato drasticamente questi risultati. Oggi una quota significativa di pazienti con melanoma avanzato ottiene risposte durature ai trattamenti immunoterapici o target: in studi clinici recenti, circa la metà dei pazienti trattati con combinazioni di immunoterapia è viva a 5 anni dall’inizio del trattamento. Anche nello stadio III resecato (malattia ad alto rischio ma operabile) la prognosi è stata migliorata dall’introduzione di terapie adiuvanti post-chirurgiche che riducono il rischio di recidiva. Invece, per i melanomi sottili in stadio I la sopravvivenza è eccellente (nell’ordine del 90-95% a 5 anni), e per gli stadi II intermedi la sopravvivenza a 5 anni è mediamente dell’80% circa (variabile in base a spessore e ulcerazione). Va sottolineato che ogni singolo caso può avere un decorso diverso: le percentuali statistiche forniscono indicazioni generali, ma la prognosi individuale può deviare dalla media.
La chirurgia è il cardine del trattamento del melanoma localizzato. Una volta confermata la diagnosi istologica, si esegue generalmente un allargamento chirurgico dell’area dove sorgeva il melanoma (se non già asportato completamente con margini adeguati in fase diagnostica). Le linee guida indicano dei margini di escissione che variano in base allo spessore del melanoma: tipicamente si raccomanda un margine di circa 0,5 cm di cute sana intorno al tumore per i melanomi in situ; un margine di 1 cm per melanomi fino a 1 mm di spessore; un margine di 1–2 cm per melanomi di 1–2 mm; e un margine di 2 cm per melanomi più spessi di 2 mm (senza superare i 2 cm, poiché margini maggiori non sembrano offrire ulteriore beneficio). L’escissione include il tessuto sottocutaneo fino alla fascia muscolare sottostante. In alcune sedi anatomiche (come volto o dita) potrebbe non essere tecnicamente possibile ottenere margini ampi, e sono necessarie tecniche ricostruttive (innesti o lembi) dopo l’asportazione.
Per i melanomi invasivi con spessore di almeno 0,8 mm (oppure più sottili ma ulcerati o con altri fattori ad alto rischio) si propone durante l’intervento anche la biopsia del linfonodo sentinella. Questa procedura consiste nell’identificare – tramite iniezione di tracciante radioattivo e/o colorante – il primo linfonodo che drena la regione cutanea del tumore, e nel rimuoverlo per analisi istologica. Se il linfonodo sentinella risulta indenne, si può evitare uno svuotamento chirurgico più esteso, mentre la sua positività (metastasi microscopica) indica uno stadio III. In passato, in caso di linfonodo sentinella positivo si procedeva sempre a dissezione completa di tutti i linfonodi regionali; oggi invece gli studi hanno dimostrato che la dissezione linfonodale radicale può essere evitata in molti casi di micrometastasi, riservandola solo se sono presenti linfonodi clinicamente grossi o multipli. Il paziente con micro-metastasi linfonodali viene comunque sottoposto a stretta sorveglianza clinica e strumentale, e soprattutto a terapie adiuvanti sistemiche (vedi oltre) per ridurre il rischio di recidiva.
La chirurgia trova impiego anche nelle forme avanzate in modo selezionato: l’asportazione chirurgica di metastasi isolate può essere effettuata con intento curativo o palliativo in pazienti con malattia oligometastatica (ad esempio una singola metastasi in un organo, o poche metastasi tutte resecabili). Ad esempio, la resezione di una metastasi cerebrale o polmonare singola, seguita da terapie sistemiche, può offrire lunghe sopravvivenze in casi selezionati. Nelle metastasi cutanee o sottocutanee in-transit a un arto, possono essere impiegate procedure chirurgiche locoregionali come la perfusione/infusione isolata d’arto (tecnica che prevede di isolare temporaneamente la circolazione dell’arto interessato e di infondervi alte dosi di chemioterapico, per trattare localmente le lesioni). Infine, in pazienti anziani con melanoma in situ lentigo maligna di ampia estensione sul volto che non possono essere operati per comorbidità, si può considerare la terapia non chirurgica con imiquimod (crema immunomodulante) applicata localmente per diversi mesi: questa soluzione ha tassi di guarigione inferiori alla chirurgia, ma in casi selezionati può essere un’opzione.
Il melanoma avanzato è diventato il paradigma del successo dell’immunoterapia oncologica. Oggi, farmaci che modulano il sistema immunitario sono il trattamento di prima linea per la maggior parte dei pazienti con melanoma metastatico o non resecabile (stadio III-IV). I più utilizzati sono gli anticorpi monoclonali che bloccano i “checkpoint” immunitari CTLA-4 e PD-1, rimuovendo i freni ai linfociti T e potenziando la risposta contro le cellule tumorali. L’ipilimumab (anti-CTLA-4) è stato il primo di questi farmaci, seguito dai più efficaci nivolumab e pembrolizumab (anti-PD-1). In pazienti con melanoma metastatico, le immunoterapie anti-PD-1 producono risposte durature in circa il 30-40% dei casi. La combinazione di ipilimumab + nivolumab aumenta ulteriormente la percentuale di risposta e la sopravvivenza a lungo termine (rispetto al solo anti-PD-1), al costo però di maggiori tossicità immuno-correlate. Recentemente si è aggiunta un’ulteriore opzione immunoterapica: l’associazione nivolumab + relatlimab (anti-LAG-3), che ha mostrato efficacia nel prolungare il controllo di malattia in confronto al solo nivolumab.
Le immunoterapie possono causare effetti collaterali legati all’attivazione immunitaria (infiammazioni d’organo come colite, epatite, endocrinopatie autoimmuni, polmonite interstiziale, etc.), che richiedono un’attenta gestione specialistica con sospensione della terapia e uso di corticosteroidi o altri immunosoppressori quando necessario. Nonostante questi rischi, l’immunoterapia ha rivoluzionato la prognosi del melanoma metastatico: una quota di pazienti ottiene remissioni lunghe e potenzialmente definitive. Oltre al trattamento della malattia avanzata, l’immunoterapia ha un ruolo anche nelle fasi precoci ad alto rischio: nei melanomi stadio III resecati (e recentemente anche IIB-IIC) è approvata l’immunoterapia adiuvante con nivolumab o pembrolizumab, somministrati per circa un anno dopo l’intervento, al fine di eliminare eventuali micrometastasi residue e prevenire le recidive.
Altre forme di immunoterapia per il melanoma includono: l’interleuchina-2 (IL-2) ad alte dosi, un trattamento meno utilizzato oggigiorno per la sua tossicità ma che può indurre rare risposte complete; la terapia con cellule T infiltranti il tumore (TIL), che prevede di prelevare linfociti dal tumore del paziente, espanderli in laboratorio e re-infonderli (approccio disponibile solo in centri specialistici e in sperimentazione); e i vaccini terapeutici o altri immunoterapici sperimentali. Inoltre, nelle metastasi cutanee o linfonodali superficiali non resecabili, si può utilizzare un’immunoterapia locale come il Talimogene laherparepvec (T-VEC), un virus oncolitico da iniettare nelle lesioni per indurre una risposta immunitaria locale e sistemica contro il tumore.
Un altro pilastro nel trattamento del melanoma avanzato è rappresentato dalle terapie a bersaglio molecolare (targeted therapy). Queste terapie sono specificamente dirette contro mutazioni genetiche presenti nelle cellule tumorali. La mutazione di BRAF (in particolare BRAFV600E/K) è il bersaglio più importante: essa è presente in circa metà dei melanomi cutanei. Per i pazienti con melanoma metastatico BRAF-mutato esistono farmaci inibitori di BRAF (come vemurafenib, dabrafenib, encorafenib) che bloccano la via di segnalazione anomala, e si somministrano in combinazione con inibitori di MEK (come cobimetinib, trametinib, binimetinib) per potenziarne l’effetto e ritardare lo sviluppo di resistenze. Le terapie BRAF/MEK in combinazione inducono regressione tumorale rapida in una alta percentuale di pazienti (risposte obiettive in ~70% dei casi); tuttavia, la durata di queste risposte è in genere limitata, a causa dell’insorgenza di resistenze nel corso di 9-12 mesi mediamente. Nonostante ciò, queste terapie mirate hanno migliorato significativamente la sopravvivenza rispetto alla vecchia chemioterapia e sono particolarmente utili in pazienti con malattia rapidamente progressiva o molto sintomatica (in cui è necessario ridurre velocemente il carico tumorale).
Le terapie target trovano impiego anche negli stadi precedenti come trattamenti adiuvanti post-chirurgici: nel melanoma resecato stadio III con mutazione BRAF, è approvata una combinazione adiuvante di dabrafenib + trametinib (per 12 mesi), che ha mostrato di ridurre il rischio di recidiva. Oltre a BRAF, altri bersagli molecolari sono oggetto di ricerca: ad esempio, i melanomi con mutazioni di c-KIT (presenti soprattutto nei sottotipi acrali o mucosali) possono rispondere a farmaci inibitori di KIT come imatinib o nilotinib, sebbene l’efficacia sia inferiore rispetto alle terapie anti-BRAF. I melanomi con mutazione NRAS sono stati oggetto di studi con inibitori di MEK (es. binimetinib), che hanno mostrato benefici limitati. In rarissimi melanomi con fusione genica NTRK sono disponibili farmaci TRK-inibitori (come larotrectinib), ma si tratta di casi eccezionali. La scelta di utilizzare una terapia mirata o l’immunoterapia come prima linea nel melanoma avanzato dipende da vari fattori (stato mutazionale BRAF, velocità di progressione della malattia, sedi metastatiche, condizioni cliniche del paziente); spesso entrambe le strategie vengono impiegate in sequenza nel corso della storia della malattia.
La radioterapia ha un ruolo complementare nel melanoma. Il melanoma è tradizionalmente considerato relativamente radioresistente, ma dosi adeguate di radiazioni possono controllare la malattia in determinati scenari. La radioterapia adiuvante dopo chirurgia può essere presa in considerazione in situazioni selezionate, ad esempio in melanomi con interessamento perineurale esteso (come alcuni melanomi desmoplastici) o in caso di metastasi linfonodali con estensione extracapsulare e numerosi linfonodi positivi (dove il rischio di recidiva locale nell’area linfonodale è alto). Più frequentemente, la radioterapia si utilizza con intento palliativo per trattare metastasi sintomatiche non resecabili: è molto efficace nel controllare il dolore o altre sintomatologie causate da metastasi ossee; inoltre, nel caso di metastasi cerebrali, la radiochirurgia stereotassica (SRS) può trattare lesioni encefaliche di piccole dimensioni con ottimi risultati, spesso in associazione alle terapie sistemiche. Anche metastasi cutanee o linfonodali possono essere irradiate per ottenere un controllo locale se la chirurgia non è indicata.
Chemioterapia: prima dell’avvento di immunoterapie e target therapy, il melanoma avanzato veniva trattato principalmente con chemioterapici come la dacarbazina (DTIC) o il suo derivato orale temozolomide. Questi farmaci però producono tassi di risposta modesti (circa 10-15%) e non migliorano la sopravvivenza a lungo termine. Oggi la chemioterapia ha un ruolo molto limitato nel melanoma, riservato a casi particolari in cui le terapie di prima linea non siano utilizzabili o abbiano fallito. Può ancora essere impiegata, ad esempio, in combinazione con l’immunoterapia in alcuni protocolli sperimentali o per ottenere un controllo temporaneo della malattia in pazienti selezionati.
Le più importanti linee guida sul melanoma (emanate da società scientifiche come l’ESMO – European Society for Medical Oncology, la NCCN – National Comprehensive Cancer Network, e l’italiana AIOM – Associazione Italiana di Oncologia Medica) vengono aggiornate periodicamente per riflettere i progressi nelle conoscenze e nelle terapie. Le raccomandazioni delle linee guida internazionali e nazionali sono in larga parte concordi. In sintesi, alcuni punti chiave delle linee guida più recenti per la gestione del melanoma sono:
Le linee guida AIOM italiane (edizione 2023) recepiscono tutte queste indicazioni, adattandole al contesto nazionale. Ad esempio, hanno incluso di recente l’immunoterapia adiuvante per i melanomi stadio IIB-IIC, in linea con gli studi clinici internazionali. In conclusione, l’approccio al melanoma raccomandato dalle linee guida attuali privilegia la diagnosi tempestiva, il trattamento chirurgico adeguato, l’impiego intelligente delle terapie sistemiche (immuno e target) nelle fasi opportune e un attento follow-up, il tutto nell’ambito di una gestione multidisciplinare centrata sul paziente.
Dopo il trattamento iniziale, i pazienti con melanoma devono essere inseriti in programmi di follow-up a lungo termine. Lo scopo del follow-up è duplice: da un lato diagnosticare precocemente eventuali recidive o metastasi del melanoma trattato, dall’altro identificare tempestivamente nuovi melanomi primari (poiché chi ha avuto un melanoma ha un rischio maggiore di svilupparne un secondo rispetto alla popolazione generale). Il dermatologo, spesso in collaborazione con l’oncologo, stabilisce un calendario di controlli clinici periodici basato sullo stadio di malattia iniziale. In generale:
Durante le visite di follow-up, il medico esegue un esame obiettivo accurato della pelle (ricercando nuove lesioni sospette) e dei linfonodi superficiali. Vengono anche valutati sintomi o segni che possano indicare recidive interne, guidando eventualmente ad approfondimenti mirati (per esempio, una RM encefalo se vi sono sintomi neurologici). Un elemento importante del follow-up è l’educazione del paziente: il paziente viene istruito ad effettuare autoesami mensili della propria cute, segnalando subito al dermatologo qualsiasi cambiamento anomalo (un nuovo neo dall’aspetto irregolare, modifiche in una cicatrice di resezione, comparsa di noduli sottocutanei, etc). Inoltre, si ribadisce la necessità di protezione solare rigorosa e di evitare l’esposizione ai raggi UV artificiali, per ridurre il rischio di secondi tumori della pelle. Alcuni pazienti possono trarre beneficio anche da supporto psicologico durante il follow-up, data l’ansia che può accompagnare il timore di una recidiva. In sintesi, una sorveglianza clinica regolare e prolungata, associata all’attenzione attiva del paziente, costituisce parte integrante della cura del melanoma.
La gestione del melanoma in una donna in gravidanza richiede alcune considerazioni particolari, ma i principi diagnostici e terapeutici restano simili. È importante sottolineare che la gravidanza in sé non aumenta il rischio di sviluppare un melanoma né la sua aggressività: studi epidemiologici non hanno mostrato un peggioramento della prognosi nelle donne che sviluppano melanoma durante la gestazione rispetto alle non gravide. Tuttavia, i cambiamenti ormonali in gravidanza possono scurire o far crescere i nevi benigni, rendendo più difficile l’interpretazione di alcune lesioni (è sempre consigliata una valutazione dermatologica dei nuovi nei o di quelli che cambiano aspetto in gravidanza).
Se una lesione cutanea desta sospetto di melanoma in una donna incinta, non si deve posticipare la biopsia escissionale: l’intervento locale in anestesia locale è sicuro in ogni trimestre. In caso di melanoma invasivo, anche la biopsia del linfonodo sentinella può essere eseguita durante la gravidanza (utilizzando solo il tracciante radioattivo e omettendo il colorante blu, che potrebbe attraversare la placenta). I trattamenti sistemici come immunoterapia o terapie target non sono invece somministrabili durante la gravidanza a causa dei potenziali gravi effetti sul feto. Pertanto, se una paziente incinta sviluppa melanoma metastatico, il team medico deve valutare attentamente il bilanciamento tra la necessità di terapia materna e i rischi per il feto: in alcuni casi si può optare per induzione anticipata del parto (se la gravidanza è in fase avanzata) in modo da iniziare poi la terapia, oppure, se il melanoma è diagnosticato nel primo trimestre, potrebbe essere consigliata l’interruzione della gravidanza in situazioni di malattia molto avanzata. Fortunatamente, la maggior parte dei melanomi diagnosticati in gravidanza sono localizzati e curabili con la sola chirurgia. Dopo il parto, le cure possono riprendere normalmente. Per le donne che hanno avuto un melanoma, non vi è una controindicazione assoluta a future gravidanze: molti specialisti consigliano di attendere almeno 2-3 anni senza recidive prima di concepire, soprattutto se il melanoma era spesso, per prudenza, ma la decisione va individualizzata.
Il melanoma in età pediatrica è estremamente raro (rappresenta meno dell’1% di tutti i melanomi). I pochi casi che si verificano tendono a presentarsi in due contesti: melanomi che insorgono su grandi nevi congeniti (nei giganti presenti dalla nascita, che comportano rischio di trasformazione maligna), oppure melanomi “de novo” nei bambini e adolescenti spesso con aspetti istologici di melanoma spitzoide (simile al nevo di Spitz). La diagnosi di melanoma nei bambini è particolarmente difficile, poiché le regole dell’ABCDE possono non essere applicabili (molti melanomi pediatrici sono amelanotici e possono presentarsi come noduli rosati scambiati per lesioni benigne). In caso di dubbio diagnostico, è imprescindibile l’asportazione della lesione e la revisione del caso da parte di dermatopatologi esperti in età pediatrica.
Il trattamento del melanoma invasivo nei bambini segue gli stessi princìpi degli adulti: escissione chirurgica con margini adeguati e biopsia del linfonodo sentinella quando indicato. Fortunatamente, i bambini con melanoma localizzato sembrano avere prognosi migliori rispetto agli adulti stadio per stadio, forse grazie a una biologica diversa dei tumori pediatrici e alla maggiore reattività immunitaria dei giovani. Per i rari casi di melanoma metastatico pediatrico, vengono talora utilizzate off-label le immunoterapie (ad esempio pembrolizumab o nivolumab sono stati impiegati in adolescenti con melanoma avanzato), oppure l’interferone-alfa come terapia adiuvante (anche se le evidenze nei bambini sono limitate). Data la rarità, è fondamentale gestire i melanomi pediatrici in centri specializzati, con approccio multidisciplinare e considerazione di protocolli sperimentali dedicati.
Gli anziani rappresentano la fascia di età con il maggior numero di melanomi: l’esposizione cumulativa ai raggi UV e la diminuzione della sorveglianza immunitaria con l’età contribuiscono all’aumento di incidenza nei pazienti sopra i 65-70 anni. Spesso i melanomi negli anziani vengono diagnosticati in stadi più avanzati rispetto ai giovani, per vari motivi: minor attenzione o accesso ridotto a controlli dermatologici, lesioni in sedi difficilmente ispezionabili (es. schiena) e la presenza di altre patologie concorrenti che possono distrarre dall’attenzione verso la pelle.
Dal punto di vista terapeutico, il paziente anziano con melanoma localizzato dovrebbe essere trattato con la stessa intensità curativa del giovane, compatibilmente con le condizioni generali. L’intervento chirurgico di regola non è controindicato dall’età in sé, se lo stato di salute lo consente. Anche la biopsia del linfonodo sentinella viene offerta al paziente anziano in buone condizioni, purché informato: va tuttavia considerato che in caso di positività il vantaggio prognostico apportato dalle terapie adiuvanti deve essere bilanciato con l’aspettativa di vita e le comorbidità. Le terapie sistemiche immunoterapiche sono efficaci anche nei pazienti anziani: studi clinici hanno mostrato percentuali di risposta e di tossicità immuno-correlata simili a quelle dei pazienti più giovani. Pertanto, non vi è un limite di età assoluto per impiegare anti-PD-1 o anche la combinazione ipilimumab-nivolumab, sebbene in individui molto anziani e fragili si possa preferire un singolo farmaco immunoterapico per minimizzare gli effetti collaterali. Un problema comune è la polifarmacoterapia e la presenza di malattie concomitanti (cardiache, autoimmuni, etc.), che possono complicare la gestione degli effetti collaterali dei trattamenti.
Nei pazienti anziani con aspettativa di vita limitata per altre cause, o con melanomi in stadio molto iniziale, può essere ragionevole adottare un approccio meno aggressivo: ad esempio, evitando il linfonodo sentinella per un melanoma sottile in un 85enne con gravi comorbidità, o scegliendo la sola terapia di supporto in caso di melanoma metastatico in un paziente non idoneo a trattamenti intensivi. Queste decisioni vanno prese caso per caso, coinvolgendo il paziente e i familiari in un’ottica di medicina personalizzata. In generale, l’età avanzata di per sé non deve negare al paziente le opportunità di cura attive e potenzialmente benefiche, ma le scelte terapeutiche devono tener conto della globalità dello stato di salute e dei desideri della persona.